(di Paolo Margari)
Trovo sorprendente come le catene memetiche “buona-pasqua“, sia pur con minor frequenza rispetto alle “buon-natale”, continuino a sopravvivere presentandosi puntuali ogni anno sullo screen del cellulare, da almeno una dozzina d’anni, ossia da quando l’SMS è divenuto pratica ben diffusa in Italia. Si tratta di un gesto seriale e cinico in rari casi personalizzato col nome, spesso reso barocco da frasi replicate e scevre dal linguaggio del mittente.
Attraverso tali assurde liturgie culturali, l’organizzazione culturale denominata chiesa cattolica marca il territorio neuronale dei suoi clienti (denominati fedeli). Negli ultimi anni, anche in seguito ai ripetuti scandali criminali di ogni tipo che hanno coinvolto rappresentanti della chiesa cattolica di ogni grado, sono pochi coloro che si definiscono fedeli, ma restano in tanti a definirsi credenti. Quasi a dire “credo ma non vado in chiesa”. Questo è un male minore per la chiesa. Ormai, come le società calcistiche di alto rango hanno visto spostare i loro proventi dagli ingressi allo stadio ad altre voci (es. diritti televisivi, scommesse, merchandising, etc.), altrettanto per la chiesa gli avventori dei luoghi di culto territoriali contano sempre meno, in virtù di altri proventi, diretti e indiretti, scaturiti dal restare organizzazione chiave nell’amministrazione del più diffuso fenomeno culturale di massa all’interno di una comunità nazionale.
I fedeli, oltre a una strategia di mantenimento (messaggio augurale) sono inconsapevolmente agenti di una strategia difensiva. Provate a contraddire il sedicente augurio pasquale, e sentirete rispondere che “le tradizioni vanno seguite”. Provate a chiedere cosa si intenda per “buona-pasqua”: la risposta nella maggior pare dei casi sarebbe evasiva, quasi a dire “così fan tutti”. Qualche replicante dirà che “gesù è risorto” mentre pochi altri, più determinati, si imbatteranno in inconfutabili teorie teologiche, puntando allo sfinimento dell’interlocutore.
Logicamente e letteralmente, cosa significa augurare “buona-pasqua” a tutti indistintamente, anche a chi sia da anni lontano da pratiche religiose di massa? Verso i credenti è una conferma della forza commerciale della chiesa (mai effettivamente misurata), mentre per i non credenti (in molti casi ex credenti), l’augurio si rivela un subdolo tentativo di avvicinamento (o riavvicinamento), nel caso specifico denominato conversione: far sentire il destinatario isolato rispetto ai suoi vicini, i cari, gli amici, i colleghi, le persone stimate. Mettere la pecora nera sotto un riflettore e additarla come soggetto anomalo, in quanto mette in dubbio valori presumibilmente condivisi (e diffusi attraverso le pratiche culturali) dalla stragrande maggioranza della comunità di riferimento. Inoltre chi fa troppe domande passa per polemico, chi non risponde a un augurio passa per maleducato, chi stravolge le tradizioni passa per rivoluzionario, irrispettoso dell’educazione ricevuta da piccolo, quasi un traditore, una persona di cui non fidarsi. Ecco la persuasione facile ed utile perpetuata dalle religioni per definire l’apostata. In alcuni luoghi (in un passato non molto lontano anche in Italia) l’eretico era giustiziato, con tutti i suoi veicoli culturali, arsi al rogo, pubblicamente per far capire a tutti quale fosse la fine di chi provasse a contraddire la dittatura culturale.
Così una cultura si riproduce solo perché la maggior parte delle persone, in modo (paradossalmente) naturale e inconsapevole, devolve il proprio senso critico ad una super-mente fatta di regole scritte e prassi tramandate, modificate, adattate, customizzate a seconda dei vari target (geografici, demografici, etc.). Questa super-mente è il corpo costituente di un’organizzazione fatta essenzialmente di comunicazione, perché si fonda sulla comunicazione e opera con la comunicazione: la parola, il verbo (che a volte si fa carne e ammazza chi non gli va a genio). Quella della chiesa è una comunicazione dai contenuti spesso spiccioli e posticci, rivolta soprattutto a masse di ignoranti, resi e manutenuti tali perché più facili da amministrare. I significati sono inarrivabili a molti di coloro che la tramandano, ma nonostante tutto recitano inconsciamente le preghiere. Le logiche sono irrazionali e, nello stesso tempo, inconfutabili. Pertanto, si è inventato il concetto di fede, un palese atto di debolezza del proprio intelletto, come giustificazione di un gesto che denota inferiorità intellettuale e incapacità di emancipazione di fronte a una cultura totalizzante in quanto straordinariamente diffusa.
I credenti (o sedicenti tali) non sono propriamente clienti in quanto non sempre acquistano direttamente, ma promuovono l’esistenza di un’organizzazione religiosa di massa che attraverso essi riesce a riprodursi e pretendere che le scelte comuni valgano a suo favore. I credenti, inconsciamente, seguono la tradizione per paura che abbandonandola accada loro qualcosa di negativo (e la promuovono con la speranza di ottenere qualcosa di positivo). E’ come una cura costante, una scommessa che apparentemente non costa nulla. Eppure le vicende della vita sono pressoché simili per qualsiasi culto anzi, a guardare la storia, i cattolici sono da ritenersi più sfortunati di altri. Ma il cattolicesimo si fonda sulla povertà e sulla sofferenza (dei credenti, ovviamente, ma a mio vedere anche delle alte gerarchie, perché sia pur dorata, resta triste una vita in un ambiente così conservatore e cinico).
A chiunque provi a dissentire, sia pur con cognizione di causa, è presto attribuita un’aura negativa, quasi come se fosse un appestato da evitare (perché contagioso?). Personalmente, da molti anni, fortunatamente ho scelto di non credere a certe favole di massa. Se devo credere alle favole, preferisco sceglierle da me.
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